Siete curiosi di scoprire cos'è un tantoscopio?
Non vi spaventa vedere in faccia la morte?
Avete sempre desiderato catturare la nera signora?
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PROSSIMAMENTE IL LIBRO

ISBN da definire
GRUPPO EDITORIALE ALBATROS - IL FILO
via I. Nievo, 27
01100 Viterbo (VT)
in libreria per Novembre 2009

IMAGO MORTIS - Un'esca per la regina nera

di Andrea Saviano

Un’insolita rappresentazione del topos letterario della partita a scacchi contro la morte; un breve racconto (impreziosito dalle illustrazioni dell’autore stesso) che sconfina nel fantastico e nell’esoterico. Due cari amici, un teologo e uno scienziato, mettono tutti i propri talenti nel conoscere e comprendere il momento del trapasso dal quale sono entrambi, in modi differenti e per motivazioni diverse, irrimediabilmente affascinati. Le lunghe dissertazioni su ciò che la morte è e su come la si possa rappresentare, intrecciate a interminabili partite a scacchi cariche di significati simbolici, e illuminate dalle diverse fedi (dell’uno in una realtà superiore, dell’altro nel metodo scientifico), sfociano in un esperimento rivelatore che li metterà di fronte al dubbio che li conduce in questa difficoltosa ricerca: una personificazione della Morte, concreta e credibile, dotata di un’essenza o di una qualche corporeità, insomma, una vera e propria Regina Nera, è veramente pensabile?

SOMMARIO
01 - Mosso! Una banale partita a scacchi
02 - Il tanatoscopio
03 - Raffaele e Filippo
04 - Nell'ufficio di Filippo
05 - L'esperimento
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NOTA DELL'AUTORE

Imago mortis - Un'esca per la regina nera” è un breve romanzo fantastico nato nel 1978 che ha subito più revisioni nel tempo. Si tratta di un omaggio alla mia terra natale: Chioggia, poiché i protagonisti sono nati come me a Sottomarina (un Boscolo e un Tiozzo, due cognomi molto diffusi in quella frazione, tanto per intenderci) e si tratta di una storia che risulta più esoterica che fantascientifica. Infatti, la regina nera, oltre che essere il noto pezzo degli scacchi, nel racconto in questione è la Morte (intesa con l'iniziale maiuscola, appunto). Il riferimento al clima della partita a scacchi ne Il settimo sigillo di Bergman - a cui il racconto è un modesto omaggio - appare evidente.
L'ossessione che accomuna i due protagonisti, oltre al forte sentimento d'amicizia, è quella di comprendere il meccanismo della morte, ma non solo, di andare oltre compiendo un'analisi scientifica e teologica della tanatologia.
Non c'è apparente traccia in loro della tanatofobia, cioè della paura di morire o del timore reverenziale nei confronti del processo biologico del morire, ma la fredda analisi e curiosità dello scienziato, salvo dimostrarsi più umani di quanto essi credano nel momento del confronto diretto con l'Oscura Signora.
Anche se il racconto all'inizio è molto speculativo, i due protagonisti non sono dei filosofi che fanno della penna il loro strumento, piuttosto dei chirurghi che con il bisturi intendono fare una biopsia alla morte.
Il dubbio che scuote le loro menti e turba i loro animi è se sia reale e credibile la personificazione del trapasso in una Morte fatta di una particolare essenza o spiritualità, in poche parole una regina nera del decesso, una signora dispensatrice di morte.

Lottiamo contro l'idea della morte,
pensando che per ognuno ci sia uno scopo
e che conseguire tale scopo dia l'eternità,
eppure osserviamo l'ingiustizia del mondo
come se tutto ciò non ci riguardasse,
forse è per questo che ognuno di noi
in fondo, in fondo teme la morte.

I Mosso! Una banale partita a scacchi


Nell'oscurità più profonda di una notte senza luna, illuminata da poche fievoli stelle, emergeva basso sul confine fra cielo e terra un debole e incerto chiarore.

Una luce pressoché impercettibile, individuabile solo perché solitaria e avvolta dalla più completa tenebra. A un viandante disattento essa sarebbe parsa solo il vago bagliore di una debole stella che sfavillava incerta poco sopra la linea dell'orizzonte, ma un osservatore più attento, magari dotato di un'acuta mente indagatrice, avrebbe presto dedotto che si trattava di qualcosa d'artificiale.

In base a questo sillogismo, costui avrebbe ben presto notato che le compatte tenebre che la circondavano altro non erano se non la sagoma di uno sperduto e maestoso edificio che, assiso sulla montagnola come un eremita, dominava l'altura.

Una vetta che era poco meno di una bassa montagna e poco più di un'alta collina. Nonostante la notevole elevazione sulla pianura, la base larga, la forma quasi cilindrica e la cima appiattita le conferivano l'aspetto di un tozzo panettone mal lievitato.

Un occhio particolarmente esercitato e attento si sarebbe inoltre accorto che quel luccichio proveniva dall'unica finestra con le serrande aperte e che l'edificio si configurava come un'antica dimora a tre piani.

Non c'era un perché a tutto questo che si potesse spiegare con poche parole, infatti a far compagnia a quell'antica magione c'erano molte e strane leggende, tuttavia c'era un motivo persino banale a quell'unica finestra aperta: la calura afosa che pareva voler ricordare a tutti il fatto che si fosse in piena estate.

Non fosse bastato quel caldo umido e appiccicaticcio che saliva dalla brughiera a rammentare che s'era nel mese di agosto, lo ripeteva anche il gracidare di rane, rospi e raganelle a cui rispondeva il frenetico frinire di grilli e cicale.

Da qui il motivo per cui quella luce era particolarmente debole. Ciò dipendeva dal fatto di voler evitare un tipico inconveniente estivo: il fastidioso sopraggiungere delle falene.

L'abitazione risultava perciò avvolta al suo interno da una strana luce soffusa, talmente bassa da risultare impossibile definire quell'ambiente illuminato, ciononostante sufficientemente intensa per non doverlo definire al contrario buio.

Da quelle uniche due imposte non serrate fuoriuscivano le note pesanti di un'antica ballata in fa diesis minore che aveva come protagonista dei propri versi una morte - signora e padrona - che s'innalzava spietata sui destini dei ricchi quanto su quelli dei poveri come una terribile e oscura regina con tanto di corona.

Un viandante, appiattito dal suo camminare sulla superficie della pianura, non se ne sarebbe mai potuto rendere conto, ma se si fosse potuto sollevare da terra per giungere al maniero a volo d'uccello di fronte a quella finestra aperta, gli sarebbe stato possibile notare al centro della stanza la sagoma di un tavolino e, ai due opposti lati, le silhouette di due uomini apparentemente intenti alla meditazione.

Due ombre nella penombra, due esseri quasi spettrali le cui mani parevano intente a sorreggere le loro fronti, quasi il fardello dei pensieri non permettesse più al collo di sopportare il peso delle teste.

La sagoma del tavolo non era sgombra, ma sormontata dal contorno di una piattaforma su cui s'innalzava una serie ininterrotta di rilievi rendendo la stessa simile a una vetusta cattedrale provvista di guglie e pinnacoli.

Dentro quella stanza, e precisamente su quel tavolo, era in scena la rievocazione dell'eterna lotta tra il bene e il male, dell'infinita battaglia tra la luce e le tenebre.

Una mano alterò la perfetta immobilità da quadro di quella scena, afferrò uno di quei rilievi e lo mosse, lasciandolo scorrere lentamente e silenziosamente lungo la superficie levigata della piattaforma posta al centro del tavolo.

«Mosso!» Esclamò la voce cavernosa di uno dei due personaggi.

Costui era chiaramente intento a giocare a scacchi. Non una partita qualsiasi, ma la solita, interminabile partita a scacchi con l'amico e rivale di sempre.

Il nome di questo giocatore era Filippo Boscolo, professore, accademico e cattedratico.

Anche quella sera, come tutte le altre volte, i cavalli erano al centro del suo dinamico modo d'interpretare quel passatempo. Un esercizio della mente che, come noto, è fatto di meditazione e strategia.

Lui, per quanto concerneva il passatempo degli scacchi, apparteneva a quella categoria di giocatori ininterrottamente aggressivi, che amano sempre combattere utilizzando i bianchi, questo perché lui aveva un unico irrinunciabile obiettivo: braccare e annientare la regina nera.

A volte, quei due chiari pezzi in legno verniciato, pur raffigurando dei destrieri, ai suoi occhi si trasformavano in due grossi cani da caccia intenti ad abbaiare e latrare. Due segugi eccitati dall'usta lasciata da quello scaltro e femmineo essere nero.

Una muliebre creatura che nulla aveva a che spartire con l'affetto e la dolcezza di una madre o di un'amante, perché un disgraziato destino le aveva assegnato il medesimo compito della fame, della pandemia e della guerra, quello d'essere un'orrida portatrice di morte e distruzione.

Già, lei: la regina nera era per antonomasia l'apportatrice di miserie nel campo avverso. La condanna capitale per tutti i pezzi che non fossero suoi confratelli e, a volte, anche per loro, poiché spesso capitava che li chiamasse in causa affinché si sacrificassero al posto suo.

Filippo non poteva che odiare colei che s'era eretta a dispensatrice di morte verso tutti i pezzi che avessero fatto del barlume dell'intelletto il loro vessillo.

Come ogni altra precedente partita, anche quella sfida era iniziata con un esercito del caos che (antiteticamente alla propria natura) era bello e ordinato, perfettamente allineato lungo due file parallele.

Tuttavia, a dispetto di quell'iniziale ordine, era evidente a tutti che costoro erano solo un insieme di spiriti dannati impegnati anima e corpo nel tentare di fuggire dalle lacrime e dallo stridore di denti che caratterizzavano le tenebre da cui provenivano e che molto probabilmente li aveva partoriti.

Anime dannate che ormai sembravano dedicate all'unica attività che potesse procurare loro diletto: la tortura e la distruzione di tutto ciò che godeva ancora della luce proveniente dalla Grazia divina.

Quell'armata del male era composta da elementi differenti tra loro nella foggia, ma tutti simili nell'infamia. Per questo il loro colore era quello prediletto per descrivere il male: il nero.

Creature scure come l'ombra in cui vivevano e di cui s'alimentavano. Buie come l'oscurità che mai potrà vedere la più lontana parvenza di luce. Tetre come può esserlo solo un luogo in cui viga la più assoluta privazione di tutto.

Adesso, a partita iniziata, l'unica intrusione di luce in quel regno delle tenebre era il bagliore bianco di quei due cavalli. Schizzavano da un lato all'altro della scacchiera simili alle saette divine scagliate da Zeus in persona contro i Titani per arrestare la loro ascesa all'Olimpo. S'infiltravano tra le linee nemiche e poi fuggivano, seminando sempre scompiglio e a volte la morte. Una pena capitale intesa, però, come sommo atto d'infinita giustizia.

I cavalli erano per Filippo quello che per Orione, il mitico cacciatore, erano i propri mastini. Un incrocio di razze notoriamente concepito per la caccia all'orso.

Quindi, quei due pezzi dalla foggia equina sapevano benissimo che per soddisfare il volere del loro padrone avrebbero dovuto condurre un'impari lotta, dando l'inseguimento a un essere immensamente più forte e aggressivo di quanto non fossero loro, al solo fine di stanarlo e offrirlo al vezzo venatorio del padrone.

Un'ardua missione che sarebbe costata, quasi certamente, l'esistenza di uno o di entrambi i cavalli.

C'era un rito che idealmente si realizzava prima che l'iniziale scaramuccia degenerasse in battaglia senza quartiere. All'inizio d'ogni partita, Filippo con un silente sguardo osservava i suoi due bianchi destrieri del bene.

Li contemplava, mentre insieme a tutti gli altri pezzi della scacchiera se ne stavano belli e ordinati.

Nell'illusoria rappresentazione dell'apocalisse, prima che un qualche pedone avanzasse di due caselle per aprire quella macabra danza e nel perfetto religioso mutismo di quell'istante, Filippo aveva l'impressione che i suoi due splendenti lottatori si volgessero a lui (loro supremo tiranno e condottiero) per intonare un gladiatorio grido di guerra.

Duce, morituri te salutant!”.

Per lui, profondamente e visceralmente ateo, i bianchi non erano il bene angelico, piuttosto il lume della ragione che portava la luce della scienza e del discernimento logico (sia induttivo che deduttivo) lì dove l'umanità brancolava ancora nel buio del dubbio e dell'ignoranza.

Il tutto in una visione paradossalmente romantica, quindi sentimentale, della filosofia e della scienza. Cosicché l'iniziale illuminismo evolveva attraversando il periodo dell'arcadia, il neoclassicismo, per fermarsi all'impeto e alla tempesta del sentimentalismo. Cosicché superstizione e razionalismo si fondevano in un polpettone di tutto e del contrario di tutto che permetteva a Filippo di estrarre da quel magico cilindro ciò che reputava essere più utile di volta in volta ad avvalorare le proprie teorie.

Dopotutto la scienza, tramite la statistica, era in grado di dimostrare anche la più folle delle teorie, bastava selezionare accuratamente il campione e manipolare impropriamente i dati. L'antagonista di un'intera vita fatta di partite a scacchi, ma non solo, era Raffaele Tiozzo, sacerdote, filosofo e teologo. Il quale, invece, amava particolarmente i pezzi ammantati del colore dell'oscurità, che ben incarnavano il suo tetro ma sottile humour macabro e che altrettanto bene esemplificavano l'assenza di risposte a domande che trascendessero l'umana scienza.

I pezzi neri e il suo tetro umorismo erano una particolare valvola di sfogo che fungeva da rimedio catartico contro l'irrazionale paura della morte che l'attanagliava. Lui, come la grande maggioranza degli esseri umani, tendeva quindi a scherzare sulle cose che gl'incutevano rispetto o paura.

La sua non era la paura irrazionale che si dilegua se posta davanti al lume della ragione e della filosofia, ma quella della fede che pur essendo in lui - teologo - molto forte non pareva esserlo mai abbastanza per rendergli quest'argomento in qualche modo gradito o, perlomeno, cristianamente accettabile.

Per tutte queste ragioni (per molte altre su cui è inutile dilungarsi) Raffaele era radicalmente differente dall'amico. La cosa risultava evidente anche dal differente modo di comportarsi nella vita, essendo lui più taciturno e meno istintivo dell'amico.

É quindi facile comprendere i motivi per cui lui non fosse una mente combattiva, piuttosto lo stereotipo del giocatore che ama giocare di conserva. Di chi replica piuttosto che attaccare, nella convinzione che meditare sia più stimolante che inventare. Cose che gli riuscivano particolarmente bene, grazie appunto al suo eccellente spirito critico.

«Il mondo è sufficientemente spazioso» soleva dire «per gli artisti e per i critici d'arte. L'arte, infatti, non esisterebbe se non ci fossero gli artisti a crearla e i critici a depurarla delle nefandezze dei presunti artisti».

Il gioco “attendista” di Raffaele, si badi bene, non aveva nulla a che spartire con il banale temporeggiare nell'attesa di un errore altrui, piuttosto era la descrizione stessa dell'impervio sentiero della conoscenza dove a ogni domanda risolta corrisponde l'emergere di ulteriori, più numerosi e nuovi, quesiti. Ogni sua mossa era il libero arbitrio in grado di definire infiniti differenti orizzonti temporali, rendendo così indeterminato il futuro d'ogni pezzo, allegorie su quella scacchiera dell'essere umano che è sempre strettamente legato non solo alle proprie scelte, ma anche a quelle degli altri.

Su “Pippo” e “Lele” (questi erano i nomignoli che utilizzavano in privato) aleggiava tuttavia la fragilità intrinseca dei pezzi neri rispetto a quelli bianchi. I primi erano pur sempre indietro di una mossa rispetto ai rivali, però quella era anche la stessa intrinseca fragilità della fede di Raffaele, scossa ogni notte dal dubbio e riscoperta ogni mattina nella limpidezza di un'irrazionale percezione del trascendente come presenza immanente in ogni forma del creato.

Una debolezza ancora più evidente se posta a confronto con la fredda determinatezza del credo scientifico di Filippo, il quale si fidava ciecamente delle possenti intuizioni dei geni che aveva creato quella gnoseologia e sulle cui spalle lui fino ad allora s'era solamente arrampicato non riuscendo ad apportare quel quid di nuovo e originale al già scritto.

Si comprende quindi perché tra i due amici e quella forma di passatempo ci fosse una particolare “corrispondenza d'amorosi sensi” che non faceva vivere come un peso per loro né il dover parteggiare sempre per il medesimo schieramento, né il ritrovarsi da anni a condurre un'interminabile partita in più atti che ormai da troppo tempo non trovava l'epilogo dello scacco matto.

Infatti, le loro innumerevoli sfide erano da parecchi mesi caratterizzate solo dall'immobilità dinamica del meno esaustivo dei finali: lo stallo.



II Il tanatoscopio


Filippo e Raffaele erano amici di lunga data. Nati entrambi a Chioggia, avevano trascorso gran parte dell'infanzia e dell'adolescenza insieme. In realtà entrambi solevano sottolineare che non erano clodiensi, bensì marinanti, cioè della vicina frazione di Sottomarina, perché per chi era nato da quelle parti tale distinzione era fondamentale.

Insieme avevano frequentato: la scuola materna gestita dalle suore canossiane, le elementari all'istituto consacrato all'eroe di guerra Salvatore Todaro, le medie inferiori dedicate al poeta Giovanni Pascoli, il liceo scientifico intitolate all'insigne studioso clodiense Giuseppe Veronese.

In seguito alle loro differenti passioni s'erano poi separati all'epoca dell'università.

In quegli anni, divenuti lontani, le loro differenti scelte li avevano portati in atenei geograficamente molto distanti tra loro: Padova e Roma.

Ciò nonostante, terminati i rispettivi corsi di laurea e le successive specializzazioni, s'erano incontrati spesso per condividere il loro tempo libero e la loro comune passione per un argomento alquanto insolito, almeno per dei giovani che non fossero infatuati dei riti satanici: la morte. Di recente, poi, s'erano ritrovati tutti e due coinvolti nella messa a punto di un complesso e sofisticato macchinario: il tanatoscopio.

Il tanatoscopio era un dispositivo molto sofisticato ideato da Filippo. Si trattava di un congegno molto più complesso del - a dir poco - banale termometro rettale che i criminologi utilizzavano per misurare la temperatura di un cadavere in modo da poterne determinare l'ora del decesso e ben più raffinato di qualsiasi strumento pseudoscientifico fosse mai stato creato dalla penna del più fantasioso scrittore di letteratura gotica.

Il tanatoscopio, secondo le intenzioni dello scienziato, gli sarebbe dovuto servire per portare a termine gli esperimenti che avrebbero avvalorato una particolare teoria sulla morte nota ormai al mondo scientifico con il nome di “ipotesi di Tiozzo e Boscolo”.

Il nome di questa come di altre complicate apparecchiature del mondo della fisica e della chimica derivava direttamente dal greco:

thánatos = (sost.) morte
scopéo = (verb.) osservare

Il vocabolo così ottenuto identificava uno strumento piuttosto complesso atto a osservare e quindi studiare accuratamente la morte nel momento stesso del suo accadere.

Ciò avrebbe reso possibile l'applicazione a tale evento naturale del metodo scientifico il quale prevedeva:

  1. l'osservazione del fenomeno;
  2. la sua descrizione ipotetica;
  3. la sua confutazione teorica tramite ripetibilità.

Finalmente, grazie a questa invenzione la morte, intesa come variabile aleatoria, poteva essere valutata mediante delle stime giacché d'ora in poi sarebbe stato possibile raccogliere su tale fenomeno dei dati sperimentali. Il resto (come soleva dire Filippo) sarebbe stata fredda applicazione dei metodi deterministici tipici della statistica inferenziale e della statistica analitica.

«Questo è finalmente uno strumento degno del suo nome» aveva sentenziato con soddisfazione lo scienziato quando l'aveva presentato ai finanziatori «perché, miei cari e facoltosi signori, un banale termometro può definirsi tutt'al più tanatometro non certo tanatoscopio!».

L'ipotesi di Tiozzo e Boscolo, come ogni altra teoria scientifica, partiva da delle specifiche congetture iniziali (a volte di origine induttiva) che ne costituivano anche le condizioni al contorno. Da lì si sviluppava poi un'originale teoria, più o meno complessa, che intendeva: spiegare e dimostrare ogni singola supposizione iniziale tramite una serie di deduzioni teoriche, realizzare una sequenza di conferme empiriche o sperimentali tramite l'osservazione del fenomeno, inteso come effetto, al variare delle cause.

In breve, si trattava semplicemente d'applicare alla morte il metodo scientifico galileiano con l'utilizzo di un sofisticato impianto dotato di particolari meccanismi o, come i due studiosi preferivano dire, mediante un'appropriata strumentazione scientifica.

Anche se i due tendevano a ridurre il tutto a qualcosa di simile alla caduta di due gravi dalla torre di Pisa, in realtà l'argomento era ben più complesso. Non solo si trattava d'applicare con precisione certosina le più raffinate tecniche di problem solving per elaborare quanti più dati possibili (fossero questi d'origine quantitativa e tangibile - cioè misurabili - o di provenienza qualitativa e intangibile - cioè incommensurabili-), ma occorreva anche collegare tra loro, attraverso inusuali strumenti di misura, l'effetto - nel caso in questione il decesso - a tutte le possibili cause o, com'era chiaramente espresso dall'ipotesi di Tiozzo e Boscolo, “La” probabile causa.

Pertanto, il tanatoscopio era solo il figlio naturale dell'evoluzione del metodo scientifico, partendo da Galileo Galilei e passando per Cartesio, Bacone, Dewey e Cohen.

Costoro, secondo l'opinione di Filippo, erano stati i padri che gli avevano inoculato il seme della conoscenza, mentre lui era solo la madre gravida che aveva prima offerto il proprio utero e infine partorito quell'originale marchingegno.

Premesso ciò, cosa accomunava il mistico Lele al più materialista Pippo?

Il fatto che entrambi fossero ben consci che la morte non poteva essere affrontata partendo dalle idee dominanti che avevano polarizzato per millenni scienza, filosofia e religione.

A loro avviso era necessario un breakthrough, cioè uno scavalcamento intellettuale attraverso una qualche forma di pensiero laterale, magari tramite l'influenza delle convinzioni religiose di Raffaele.

A confermare ciò, come asseriva Filippo, il fatto che «Il mio subconscio logico e razionale ha elaborato questo complesso progetto in un modo solo apparentemente irrazionale, cioè attraverso l'illuminazione creativa, ma in realtà questa è una prassi nel mondo della scienza, perché ci sono numerosi altri esempi di ciò nella storia dell'uomo».

Comunque, per non svilire la scientificità della scoperta, Filippo tralasciava sempre il fatto che la “geniale intuizione” - come la chiamava lui - fosse nata attraverso l'inconsueta metodica progettuale del sogno.

«Dio ci parla in molti e misteriosi modi» aveva invece commentato il religioso quando lo scienziato gli aveva rivelato come aveva ottenuto quell'intuizione.

Già, perché il freddo e razionale Filippo un bel giorno era andato come tante altre volte a dormire, solo che quella volta s'era risvegliato il giorno dopo con in testa la sua magnifica idea.

Fatte tutte queste premesse, era facile comprendere come il merito della materia al centro del contendere e degli studi sia del cattedratico che del teologo fosse la tanatologia non intesa come dissertazione sulla morte, ma come scienza dell'aspetto più intimo della morte. Cosicché, il tanatoscopio stava alla tanatologia come i ferri dell'ostetrico alla ginecologia.

Ora, nonostante gli sforzi di Tiozzo e Boscolo, in molti atenei la tanatologia era ritenuta una materia troppo vicina ai miti dell'occulto per essere elevata a scienza e costituiva un argomento assai complesso, perlomeno difficilmente collocabile sullo scaffale di una biblioteca universitaria. La diatriba essenzialmente verteva su quale fosse il corretto ambito di pertinenza: scienze tradizionali, pratiche esoterico/trascendentali.

Non essendo possibile trovare un luogo neutro d'appartenenza, a seconda delle fazioni la tanatologia poteva essere trascinata ora qua (tra le scienze più tradizionali quali ad esempio la medicina) ora là (nel mondo più strutturato della religione o in quello più destrutturato della negromanzia).

Insomma, lo studio della morte come atto estremo e conclusivo della vita era un sapere dove, pur essendo applicabile il metodo scientifico, non s'era più certi di poter parlare di scienza. Dopotutto termini come Dio e anima, essendo assolutamente privi di fisicità materiale, avevano poco a che fare con la scienza sperimentale.

Era ovvio che per il sapere ufficiale era meglio girare al largo dall'idea di provare la dimostrabilità scientifica dell'esistenza di Dio, perlomeno allo scopo d'evitare il ripristino dei tribunali dell'inquisizione e dei roghi.

Su un argomento come questo il preciso e puntuale Kant si sarebbe arrovellato per l'intera vita perdendosi in mille riflessioni filosofiche, magari intento a osservare il sublime assoluto del cielo stellato o a far regolare gli orologi dei suoi compaesani.

CONTINUA

un'esca per la regina nera (imago mortis)